La rubrica I.60 dello statuto del Comune ha per titolo De conductoribus terrarum et vinearum (Coloro che coltivano la terra e le vigne). Tra i terreni agricoli che sono abitualmente concessi in affitto, le vigne ricoprono il primo posto per frequenza e rilevanza. La norma è perentoria nello stabilire che il conduttore non può in alcun modo mantenere la conduzione della vigna oltre la scadenza del contratto, ma finché il contratto è in essere, se sorgono controversie tra le parti, si dovrà tentare di risolverle attraverso il ricorso a «duo homines amici communes, qui debeant cognoscere de iure conductoris et diffinire». Si ricorra, dunque, a due uomini di fiducia di entrambe le parti, che dirimano la questione sulla base del buon senso. L’auspicio è che la controversia si risolva con un accordo sancito da una solenne stretta di mano, ma se ciò non sarà possibile si dovrà ricorrere alla giustizia ordinaria.
Il medesimo statuto dedica la rubrica I.61 a coloro che lavorano terreni o vigne per conto dei proprietari (De laboratoribus terrarum et vinearum). Il contratto può essere concordato e stipulato in piena libertà tra le parti ed il Comune se ne fa in ogni caso garante. Circa le vigne, però, si stabilisce che è diritto del lavoratore scegliere se versare la parte del raccolto spettante al proprietario in uva o in vino.
La rubrica II.106 è relativa ai danneggiamenti (De dampno dato in vinea). La gravità riconosciuta al danno, e quindi l'entità della pena fissata, segue il calendario. Il danno generico compiuto in vigna dal primo aprile ad Ognissanti è punito con 40 soldi. Nel resto dell’anno la multa è di 20 soldi. Ognissanti, quindi, è considerato il limite estremo per la vendemmia; piuttosto tardivo, se confrontato con le consuetudini attuali. Chi ruba uva deve pagare 40 denari per l’ingresso in vigna, più 3 denari per ogni grappolo sottratto. Una pena analoga è fissata per chi va a far fronda nelle vigne. Se il danno è inferto di notte, però, le pene raddoppiano. È considerato danno anche il permettere che alberi propri oltrepassino con rami il confine e facciano ombra alle viti del vicino (II.122: De arboribus pendentibus supra domum, terram vel vineam alienam). Il proprietario della vigna, in questo caso, può pretendere il taglio dei rami che lo danneggiano e se inascoltato dopo otto giorni può farsi giustizia da sé.
Tutto questo in vigna, ma in cantina? Di ciò si interessa la rubrica III.71 dello Statuto del Comune: Quod nulla persona audeat vel presumat facere aliquam conciam supra vinum existens supra matrem. Conciare è termine proprio del latino medievale che significa 'aggiustare', 'sistemare a proprio piacimento'. 'Conciare il vino' significa quindi manometterlo, adulterarlo: aggiungervi, quindi, qualcosa che ne modifichi le caratteristiche. Cosa vi si aggiungesse, almeno dal dettato dello statuto, non è dato sapere. Ciò è però considerato un reato particolarmente grave, probabilmente perché l'adulterazione del vino poteva causare danni alla salute di chi lo beveva. Corrispondente, quindi, è la gravità della pena stabilita, che è di ben 50 libbre di denari. Se l'aggiunta di sostanze avveniva nella botte, in particolare fino a che il vino riposava sulle fecce, oltre alla multa, si ordinava che la botte o le botti incriminate venissero pubblicamente bruciate nella piazza centrale di Foligno. Alla pesante multa, quindi, si sommavano un ulteriore danno economico (la distruzione delle botti) e soprattutto un gravissimo danno di immagine, inferto con le modalità proprie delle più gravi condanne: il rogo nella pubblica piazza. Il colpevole, inoltre, doveva giurare solennemente di non ripetere il reato e l’eventuale reiterazione sarebbe stata giudicata delitto di natura non più civile, ma penale.
E il vino immesso sul mercato? Di questo tratta lo Statuto del Popolo, alla rubrica 103: De inventis in taberna post tertium sonum campane. La taverna era il luogo in cui i nostri antenati medievali si rifocillavano nel corpo e nell'anima dopo una dura giornata di lavoro. Il vino - che si sperava non ‘conciato’ - accompagnava questo momento rituale, ma sin d'allora i comuni stabilivano un orario limite, per evitare possibili problemi di ordine pubblico. Il Comune di Foligno aveva fissato l'orario in cui interrompere la mescita al terzo suono della campana, cioè alle tre di notte. Ma attenzione, ciò non va inteso secondo il modo odierno di computare il tempo. Le tre di notte equivalevano a tre ore dopo il tramonto: orario variabile, quindi, a seconda della stagione. Chi si fosse attardato, se scoperto, sarebbe incorso nella pena di 40 soldi. Alcune categorie, però, erano esentate. I proprietari delle taverne e gli ospiti forestieri, infatti, potevano continuare a mangiare e bere senza limitazioni di orario, anche fino al mattino. Allo spossato viaggiatore del medioevo, quindi, Foligno spalancava generosamente le porte delle proprie taverne, né più né meno, in fondo, di quanto faccia oggi, almeno in periodo di Quintana.