Giuseppe, ci sono tanti modi di parlare di vino e tu in genere lo fai partendo dalle persone e dai luoghi.
Mi piace sempre ricordare che dietro il vino c’è l’esperienza delle persone. Mi piace rapportarmi sempre a quello che è il lavoro della vigna che è fatta da persone che seguono con affetto un ambito territoriale di cui in qualche modo ritengono di essere responsabili. È io sento il bisogno di portare la mia testimonianza sul fatto che dietro i paesaggi incantevoli, le grandi bottiglie, c’è qualcuno che lavora in silenzio. Io ho avuto la possibilità di conoscere ancora qualche famiglia che viveva nelle case dell’azienda, undici case coloniche. Queste famiglie vivevano e lavoravano all’interno dell’azienda, ed erano portatori di un sapere che, da un certo punto di vista, si è un po’ trascurato. Sarebbe stato bello poter concepire una riforma dell’agricoltura, legata alle produzioni elitarie, che tenesse conto del sapere di questi grandi contadini, agricoltori. Loro sapevano fare tutto: tirar su un muro, riparare un tetto, fare un innesto, piantare una vigna, sapevano fare tutto. Quelle erano persone da mettere al centro e dire "adesso veniamo a scuola da voi".
Poi tutto è cambiato e quei rapporti così formativi che costituivano la base della esperienza si sono rarefatti
Sì, ci siamo distratti, i tempi hanno voltato altre pagine evolutive, quelle dovute alla modernità. C’è stato questo stacco e un po’ noi tutti ne abbiamo risentito, ma in qualche modo stiamo recuperando. In vigna oggi abbiamo delle persone che hanno saputo collegare il passato con il presente. È significativo il fatto che ci siano due famiglie ancora attive in azienda, sono due fratelli, Remigio e Agostino Buracchi, uno alla cantina e l’altro al vigneto. Loro rappresentano la continuità con il passato e per i giovani costituiscono un seminario permanente. I giovani saranno gli eredi di questo patrimonio. Ritengo che questo sia importante perché io posso rappresentare la vigna, ma non opero quotidianamente nel vigneto come fanno loro. Nello stesso tempo c’è un coinvolgimento tecnico, derivato certamente dal rapporto con il nostro enologo Franco Bernabei, ma che ha a che fare anche con tutto quello che abbiamo potuto pian piano valutare e esperire nella quotidianità.
A questo punto devi spendere qualche parola per indicare dove avviene tutto ciò, dov’è questo luogo di incontro, di relazione e di lavoro.
È proprio nel paese di Castelnuovo Berardenga. Nelle immediate vicinanze del paese c’è la nostra fattoria, non lontana da Siena. Infatti nelle giornate limpide si vede Siena come se fosse parte del paesaggio prossimo alla fattoria stessa. È una Fattoria ed è importante sottolinearlo. Per me non si può dire Felsina, senza dire Fattoria, perché è una fattoria toscana, come ce ne sono tante, che rappresenta una modalità economica di gestire il territorio, legata al tempo della mezzadria, che è durato qualche secolo. Ha un lungo passato, il nome Felsina è un nome etrusco, apparteneva a una famiglia gentilizia. Questa antica gens etrusca ha lasciato il segno anche in un ambito significativo come quello della città di Bologna, che si chiamava appunto Felsina. Poi c’è Berardenga. A Siena c’era un antico castello a cui ha fatto seguito una seconda costruzione di un altro castello chiamato, già ai tempi di Dante, Castelnuovo Berardenga perché si collegava alla famiglia dei Berardenghi che era una famiglia di origine franca. Quando diciamo Felsina, non si può staccare l’occhio anche dal luogo dell’azienda. Direi che sono due parole che devono stare assolutamente associate, sono inscindibili.
Anche il logo in etichetta identifica il luogo
Fu Veronelli nel 1977 a suggerirci di lavorare con Silvio Coppola, che inventò questa "B", una grafia che ricorda quella degli scrivani medievali. La "B" di Berardenga è a tutti gli effetti una firma. Da subito l’etichetta dice "qui siamo in un territorio ben definito". Possiamo dire la firma del terroir. Nel momento in cui il nostro dito sulla mappa indica esattamente Castelnuovo Berardenga, individua subito la Fattoria di Felsina che è proprio a poche centinaia di metri dal paese.
Passeggiando in Fattoria si coglie la filosofia agronomica dell’azienda
Sì, ogni casa colonica oggi ha per riferimento un vigneto. Sono undici le case coloniche, più o meno risalenti all’anno 1000, ed undici sono i vigneti. Infatti, camminando per l’azienda, ci si rende conto proprio di un paesaggio che è definito anche dal lavoro e dall’ambientazione di riferimento di queste case. Naturalmente non c’è solo la vigna, ma c’è anche l’olivo, c’è del grano, ci sono gli orti. Il paesaggio non è impostato sulla monocoltura, come molte volte si vede in realtà produttive molto famose nel mondo, ma c’è un equilibrio a cui teniamo molto, che è quello appunto di modulare la produzione della vite accanto alla produzione dell’olio, del grano, dei girasoli. Questo è importante anche in termini di equilibrio vegetativo, perché non possiamo prescindere dal fatto che una sorta di armonizzazione tra colture diverse è un fatto estremamente positivo. La natura lo richiede e diciamo che il paesaggio circostante lo suggerisce.
Castelnuovo Berardenga si colloca proprio alla fine della zona del Chianti classico
Se arriviamo fino a Rancia vediamo che il vigneto è proprio alla fine del Chianti classico, appena più in là siamo nella zona della denominazione Colli Senesi. Ecco che dalla terrazza di Rancia abbiamo una vista estremamente ampia, illuminata dalla luce, non ci sono ostacoli. Possiamo ammirare le creti senesi, tutte ondulate, un mare che si estende quasi a perdita d’occhio, lontano. La silouette del Monte Amiata è molto ben visibile, sulla sua destra si riconosce la zona di Montalcino, a sinistra c’è Montepulciano, leggermente nascosto, ma si intuisce, come si intuisce la Maremma. È la luce della Maremma che ti rimanda alla luce del mare. Il mare è a 55 km in linea d’aria. Il territorio è come uno spazio che si apre dopo i boschi e le foreste del Chianti. Ecco che in questo ambito chiantigiano, e non più chiantigiano, si trova Felsina. È un confine paesaggistico e lo si vede subito. Ma si avverte anche che è un confine geologico. Sul versante del vigneto Rancia, vediamo che i terreni sono rocciosi, calcarei, la ricchezza di scheletro regala al Sangiovese Rancia, delle caratteristiche generalmente di eleganza, di finezza. La vicinanza del bosco poi tende a rendere più piovosa la zona e questo favorisce un piccolo aumento di acidità. Se poi sconfiniamo, i confini attraversano proprio Felsina, ed andiamo sull’altro versante che è caratterizzato dalla denominazione Chianti Colli Senesi, troviamo dei terreni completamente diversi che ci rinviano alla zona delle crete, che menzionavo prima. È un terreno molto sabbioso, molto limoso, terreni più caldi, temperature un po’ più elevate, meno piovosità e tendenza dei vini ad avere più estratto. Quindi Rancia va verso una maggiore acidità e il Fontalloro verso più estrazione, c’è una buccia un po’ più spessa, si prende di più dalle bucce. Il Rancia, con la sua acidità e con la sua eleganza iniziale, ci conferma la sua assoluta identità chiantigiana. Il Fontalloro è una sorta di Brunello. Ci rimanda a quella che è una certa tematica del Sangiovese, più da sostanza, da concentrazione, da longevità.
Il Sangiovese rimane comunque un vitigno complesso
Sì, il Sangiovese è un vitigno non facile. L’impegno di chi vinifica il Sangiovese è proprio quello di rispettarne l’equilibrio. È un equilibrio che richiede sempre molta cura, molta attenzione già dalla vigna, cioè non troppe foglie, non troppi grappoli. Ci deve essere sempre rispetto nella vinificazione, non troppa estrazione.
Giuseppe, questa tua descrizione mi induce a chiederti come nasce l’idea di produrre il Sangiovese in purezza a Felsina
Nel 1983, abbiamo deciso con il nostro enologo di vinificare il Sangiovese in purezza anche nel Chianti classico, ma servendoci del Fontalloro, che allora era vino da tavola, categoria poi ribattezzata in altri contesti, forse anglosassoni, "Supertuscans". Il Fontalloro ci è servito proprio per poter parlare del Sangiovese con tutti i titoli. Nel versante Chianti classico, e quindi nel Rancia, ufficialmente non si poteva parlare di un Sangiovese in purezza perché il disciplinare imponeva un utilizzo di quattro uve: Sangiovese, Canaiolo, Trebbiano e Malvasia. Era il Chianti di una volta, legato ad un concetto di bere quotidiano. La scelta in quel momento di vinificare il Sangiovese in purezza fu stimolata dai risultati ottenuti con le vinificazioni degli anni precedenti, fatte dal fattore dell’azienda, quindi con vinificazioni anche un po’ approssimative, che confermavano un Sangiovese con caratteristiche piuttosto significative. Io ricordo che i vini degli anni ’60 e ’70 avevano una certa concentrazione, nonostante la presenza delle uve bianche. Ma ti dico che non consideravamo in quel momento come obiettivo aziendale quello di fare il Sangiovese in purezza, assolutamente no! Strada facendo ci siamo accorti che il Sangiovese continuava a manifestarsi come vitigno indipendente con tutta la voglia di camminare con le proprie gambe. Ha vinto il Sangiovese sulle nostre velleità di poter fare anche qualcosa di diverso. Poi considera che abbiamo 11 vigneti che sono legati ad una storia orografica del territorio e anche ad una storia antropologica. Chi ci ha vissuto ha creato quell’ambito. Il più grande vigneto che abbiamo a Felsina è il vigneto Rancia, tutti gli altri vigneti sono più piccoli. Questo sta a significare che ci sono delle microzone da tenere seriamente in considerazione. Questo ci ha coinvolto e ci ha dato una spinta che è stata quella che ci ha permesso da subito, l’azienda era stata comprata dalla famiglia di mia moglie solo nel ’76, di poter interpretare il Sangiovese in tutte le sue espressioni territoriali. Io dico sempre che noi non facciamo un Sangiovese in purezza, ma facciamo dei Sangiovese in purezza.
La scelta di fare Sangiovese in purezza ha comportato anche un intervento in vigna
In vigna abbiamo fatto e continuato a fare un lavoro che, per noi, è fondamentale e che riteniamo di non aver concluso, abbiamo bisogno di altri anni di verifiche e di conferme. Alludo alla selezione massale. I nuovi impianti che abbiamo realizzato, quando abbiamo deciso di spiantare quei vigneti che erano fatti col vecchio sistema e che integrava quattro uve diverse, li abbiamo concepiti utilizzando cloni che venivano da vigneti precedenti, selezionati, scelti. Quindi abbiamo cominciato, già negli anni ’80, quella che appunto si chiama "selezione massale" che consiste nel riconoscere, nell’identificare delle piante che hanno particolari doti e che si confermano nel tempo, annata dopo annata, e che meritano di essere recuperate ed utilizzate per riproduzione per talea negli impianti, nei vigneti successivi. E’ stato fatto un lavoro sul Sangiovese che rappresenta la saldatura di questa azienda con il passato. La selezione massale, nell’ambito del Sangiovese che abbiamo trovato a Felsina, e che veniva già dagli anni ’50, è stata una cosa estremamente preziosa ed importante.
Quali sono oggi i vini in produzione?
Ricordo che l’impostazione è piramidale. Fontalloro e Rancia al vertice della produzione, abbiamo poi la Riserva, un Chianti classico ed un Chianti Colli Senesi. E poi c’è una piccola produzione di Cabernet Sauvignon, ripeto piccola. C’è in programma, perché ogni tanto ci divertiamo, soprattutto nelle annate significative, a fare anche delle fermentazioni nel legno. Quindi pian piano arriveremo ad organizzare una vinificazione direttamente nel legno e non necessariamente solo le botti piccole e le barrique.
Un’ultima annotazione sul futuro della Fattoria di Felsina
Vedo una possibilità per il futuro, che quelle vecchie case coloniche ora non abitate tornino ad essere luoghi di riferimento. Allora la famiglia che le abiterà potrà essere responsabile, la persona di riferimento maschile o femminile, o entrambe, potranno avere la responsabilità del vigneto vicino. La personalizzazione del vigneto io credo che sia il futuro della viticoltura. Se devo dirla così, non c’è altra strada che la personalizzazione del vigneto. Ossia il coinvolgimento personalizzato, individuale di chi si prende cura della vigna. Ed allora avremo sempre di più la percezione che il lavoro è legato ad un atto di fiducia, ad una consegna, quasi ad una sorta di responsabilità condivisa. Ecco che allora il produttore non sarà più solo perché troverà la conferma della giustezza del proprio agire. Il confronto continuo con chi opera fattivamente sul campo e condivide con lui il coinvolgimento emotivo al raggiungimento degli obiettivi. Io credo che questo sia un punto fondamentale e spero che questo sia l’indirizzo della viticoltura futura.
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